Comune di Soave
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Pietro Zenari

(di Bruno Avesani)
 
"Fin dai tempi piú lontani/che regnavano i Romani,/sulla vetta qui d'un colle/che dal piano il capo estolle,/senza epoca né data/fu una torre fabbricata:/poscia in tempi posteriori/gli Scaligeri Signori/qui venuti da Verona/per pigliar dell'aria buona/'an veduto il mio paesello/modestissimo ma bello,/'an sentito il fiumicino/che serpeggia da vicino/colle chiare e fresche onde/dei pratelli fra le sponde,/vagheggiato il dolce suolo/chiama l'usignolo/la fedele sua compagna/rallegrando la campagna./Coll'esame, coi confronti/d'altri suoli, d'altri monti/visto il loco piú ubertoso/e provato assai gustoso/il buon vin dei nostri avi,/ch'eran uomini assai bravi,/del paese innamorati/son tornati e ritornati;/in progresso han poi pensato/d'innalzarvi un fabbricato/per venire, a quanto pare,/qui in autunno a villeggiare./E infatti in questi siti/son gli autunni piú graditi. /Qui in autunno c'è il sorriso/del terrestre paradiso/dove in cima sulla vetta/della torre prediletta/innamora perfin l'aria/ passerella solitaria,/che saluta la stagione/con suavissima canzone:/Qui lontano dai rumori/gli Scaligeri Signori/fra armonie di suoni e canti/facean feste assai brillanti/tra gli evviva, i battimani/degli allegri castellani./Si recava la mattina/sulla facile collina/a mangiarvi l'uve d'oro/che stimavano un tesoro;/ son quell'uve delicate/che sospese e riposate/e spremute poi nel tino/producevano quel vino/che a' Signori piace tanto/che lo dissero vin santo;/è quel vino ancor famoso/come un nettare prezioso./Gli Scaligeri inebriati/da quel vin santificati/per dar grazia al bel paesello/progettarono un castello:/da bravissimi architetti/fecer fare dei progetti/ecco all'ordine i disegni/ sassi, calce, sabbia, legni./S'incomincia la fattura/e s'innalzan con premura/queste torri, queste mure/colle loro merlature,/ed a giunger bello a bello/lo coronan d'un castello,/e per renderlo anche forte/ci fan porte e contro porte,/ci fan ponti levatoi/ porticelle, feritoi,/e fu insomma con prontezza/allestita una fortezza,/ch'a quell'epoca passata/fu potente, e ben guardata./Un cotal Marin Sanuto/che viaggiando era venuto/questi luoghi a visitare/per descrivere e notare/e di tutto far memoria,/ciò che serve per la storia;/circa l'anno quattrocento/lasciò scritto un documento che dimostra il quando, il come/questa terra à avuto il nome;/e per lui non c'è questione,/egli dice con ragione/che del loco a suavità/di Soave il nome egli ha".
Con questo poesia in cui Sior Checo Scanarelo difende le ambizioni di San Bonifacio e Matío Zocàro tesse le lodi di Soave, don Pietro Zenari vuole dichiarare il suo profondo legame con la terra d'origine alla quale rimase vincolato per tutta la vita. A Soave nacque il 23 maggio del 1830 da una famiglia di agricoltori. Dopo aver frequentato le prime scuole nel proprio paese, entrò nel Seminario di Verona per compiere gli studi superiori e prepararsi al sacerdozio. Ma a 18 anni la sua vita fu sconvolta da una terribile sciagura: nell'aprile del 1848 Stefano Zenari, suo padre, che, per osservare il movimento delle truppe austriache era salito oltre il Tenda sul Monte della Guardia, venne sorpreso da una pattuglia e crudelmente messo a morte.
La barbara e fredda uccisione segnò indelebilmente l'animo di Pietro Zenari che piú tardi, il 9 aprile del 1867, nell'occasione del solenne uffizio celebrato nella chiesa parrocchiale di Soave a commemorazione dei caduti per la patria indipendenza, dirà: "cadde sui sassi del monte della Tenda la vita preziosa del mio genitore. Ahi! Memoria di dolore che mi soffoca per poco fra le lagrime la parola: invano corse la tua terra, o Soave, del sangue innocente di un ottimo padre, la cui perdita irreparabile lasciò aperta tale una ferita di dolore nel cuore dei figli, che non si chiuderà se non quando la morte ci chiuderà il cuore al palpito della vita, quando una terra comune ci accoglierà nella fossa  quando saremo uniti per avventura in quella patria piú fortunata, dove si dimentica per sempre la memoria del dolore, e degli stranieri".
Prima ancora della conclusione degli studi teologici questa devastante ferita venne ulteriormente ulcerata da un intervento repressivo del governo austriaco. Giacomo Bettili, fratello di Angela, madre dello Zenari, insieme con i figli Antonio e Luigi e la moglie di quest'ultimo, Teresa Verzini, rei di possedere scritti contrari alla dominazione austriaca, vennero condannati a pene durissime: Luigi a 10 anni, Giacomo a 5 anni, Antonio a 1 anno di lavori forzati in ferri pesanti, mentre Teresa fu incarcerata per un anno. E lo zio Giacomo, di 61 anni, non riuscí nemmeno a sopravvivere a quei patimenti: "lasciava le ceneri onorate confuse colla cenere in estranea terra".
Nel giorno di Natale del 1853 il Nostro celebrò la sua prima Messa nella parrocchiale di Soave.
Apprezzato dai superiori per l'acutezza del suo ingegno e per la sua straordinaria preparazione culturale fu subito chiamato a insegnare letteratura italiana nel Seminario di Verona dove rimase per cinque anni per poi passare alla direzione della Civica Casa d'emendazione, detta successivamente Collegio degli Artigianelli. Affidandosi alle scherzose parole della poesia dialettale scritta negli anni in cui era responsabile di quell'Istituto di rieducazione don Pietro racconta che cercava di insegnare un mestiere e poi inserire nel mondo del lavoro quei giovani che "in pochi d'ani,/i ciapa molto ben in furbarie,/no i fa na cosa se no i fa malani,/e i dise un saco al giorno de busie,/in fine za i sa tuto el catechismo/de canajade e de berechinismo".
Lavoro difficile quello di Zenari perché, lui, uomo di cultura, deve cercare di togliere dalla strada la piccola criminalità giovanile, che ha certamente poca dimestichezza con i libri, e perché deve spesso fare i conti con l'insuccesso dell'intervento educativo: "gh'è ch'è stado qua in sta casa/che a st'ora el ciapa el pan per la fameja", ma "gh'è veramente qualchedun, che fora/nol se conduse ben, nol fa giudizio./E l'è tornado come prima, ancora /ramengo per la strada in mezzo al vizio".
Nel maggio 1862 venne mandato come parroco a Caldiero. Ancora una missione impegnativa attende il prete di Soave giacché in quei luoghi non tira un'aria molto favorevole alle idee filoitaliane se ancora nel 1867, cioè dopo cinque anni di presenza del nostro sacerdote impegnato nelle ideali battaglie risorgimentali, "i militi della guardia nazionale di Belfiore sono stati ricevuti con lancio di sassi di rilevante calibro e hanno dovuto caricare con la baionetta inastata una sconsigliata moltitudine di gente che non gradiva il tricolore".
A Caldiero fino al giorno della morte esercitò la sua attività pastorale che ebbe modo di descrivere, come al solito in tono scherzoso, nelle sue poesie. Dedicando queste "rime scherzevoli" al conte Pellegrini vuole mostrare, facendo ricorso spesso all'ironia, quanto fosse difficile svolgere la missione di prete in quel periodo storico in cui "i preti sono fatti segno al disprezzo di tanta parte della Società, che si dice educata e gentile; in questi tempi felicissimi in cui il prete è rimosso dalle scuole, escluso dalle accademie, e dalle sociali adunanze se non è apostata o ateo; in questi giorni di luce e di progresso in cui si trama alla sua riputazione, e si schernisce dal giornalismo, e si mette in ridicolo nelle commedie, e si disonora colle satire e colle caricature nelle botteghe e nei caffé, e si ha perfino ribrezzo di trovarsi con lui nel vagone delle ferrovie e del tram essendo considerato, proprio come diceva S. Paolo, la spazzatura del mondo: omnium peripsema" (da Poesie scelte, Verona, 1891, p. 259).
Fu abile rimatore, spesso lasciando trasparire un'ignoranza voluta che tale non era attribuendo a "pora dente de paese" versi brillanti e graffianti ricchi di idiotismi rurali dove sembrava non sfuggire alcuna occasione al sacerdote per ricordare momenti e celebrare eventi.
Il parroco, dopo aver passato i suoi anni migliori nelle tribolazioni ("pel ben del popolo ha faticato/fino da giovane sacrificato/in corpo e anima"), criticato sempre e comunque da qualcuno, giunge alla vecchiaia e qui, novello Parini, lo Zenari, come si sfoga in una sua poesia, si sente abbandonato dalle persone per le quali ha speso la sua vita. "La gente mormora:/ el nostro parroco nol sa pi gnente:/se 'l parla el sifola, nol ga pi un dente,/nol pol pi vedarghe:/no'l ga memoria gnan te la Messa, /el se desmentega quan ch'el confessa./Ma che 'l renunzia!"(da L'ombra del campanile). Eppure, nonostante le ripetute difficoltà incontrate nel suo lavoro quotidiano di prete, per trentasei anni fu impegnato soprattutto nella sua missione di pastore e difensore della religione. Ogni volta che veniva offesa una persona o la dottrina della Chiesa don Zenari, impulsivo e impetuoso, interveniva con la sua parola, forte e sarcastica, a difendere l'uomo vilipeso e a proclamare la verità religiosa. Per circa sei lustri annunciò la parola di Dio dal pulpito non solo della sua parrocchia, ma fu chiamato in quasi tutte le chiese della diocesi di Verona proprio per le sue straordinarie abilità linguistiche. Spesso fece ricorso alla sua brillante vena poetica per ridicolizzare l'avversario. Non solo quindi parroco zelante, ma anche prete combattivo e sarcastico. A fare le spese della sua satira erano soprattutto quei giornali anticlericali, come il veronese "L'Adige". Quando questo foglio l'8 gennaio del 1882 accusa di oscenità il poeta di Soave che scherza sulla moda femminile (Dialogo sui zercoli dele zitadine tra Matio e Zelipo), don Zenari risponde con verve e decisione. Conclude poi il suo gustoso testo con una precisa indicazione della sua poetica: "E ci me riva a offendarme con stampe o con parole/mi zerco de défendarme al meio che se pole:/so far noare in l'acqua e galantisso ampò:/l'Adese no me stofega, gnan se 'l deventa el Po".
Quello che rimane vivo ancora oggi di lui è proprio la sua opera poetica: contro gli antagonisti religiosi e politici, ma anche per gli amici e i parenti, nelle piú diverse manifestazioni religiose o civili Pietro Zenari affidava alla sua parola facile e spigliata il commento, la battuta, l'elogio, il panegirico, il ricordo. Con lo pseudonimo di Matío Zocàro (Matío, perché un po' matto; Zocàro, perché di ceppo campagnolo) scrisse molto di cui furono pubblicate due sillogi, entrambe intitolate Poesie scelte, l'una edita da Franchini nel 1891 e l'altra da "Vita veronese" nel 1955.
Stimato poeta, ma altresì abile oratore, tenne l'elogio funebre di grandi personalità, come Vittorio Emanuele e Pio IX. Per il primo, presentato come "Re Galantuomo e Padre della Patria" propone "come figlio della Religione cattolica l'apoteosi del Panteon cristiano" e prevede che se "Annibale e la sua patria Africana sono coperte dalla sabbia dell'oblio; Cesare e la Romapagana son distrutti; distrutto il regno dei barbari, che distrussero Roma; la tomba di Vittorio starà per sempre, perché custodita dalla Patria cristiana e dalla Religione di tutti i tempi" (Elogio funebre a Vittorio Emanuele,Verona, Merlo, 1878, p. 16). Di Pio IX, Zenari, trasportato dall'affetto e dall'entusiasmo, convinto che a questo papa "convenga di piú un cantico di glorificazione, che uno studiato funebre elogio" sottolinea in modo particolare l'impegno a favore dell'indipendenza dell'Italia: "se la nostra bella Italia durerà gloriosa sulla fortezza inespugnabile della cattolica Religione, se salirà colla civiltà e colla sapienza, col senno e col valore all'altezza del trono che le si compete tra le nazioni, Pio IX vivrà, perché egli fu l'angelo disceso dal cielo sul Vaticano a profetare i gloriosi destini della piú disgraziata fra le nazioni, che dopo le antiche sue glorie fu per tanti secoli costretta a servire sempre o vincitrice o vinta: fu Pio IX che annunziò il giorno della scomparsa delle straniere tirannidi" (Elogio funebre nelle esequie solenni a Pio IX, Verona, Tipografia Vescovile,1878, p.15-16).
Certamente vide nel papa l'incarnazione piú alta degli ideali per i quali aveva speso tutta la sua vita, poiché lo Zenari fu uomo di chiesa, ma anche fervente patriota, legato all'Italia prima e dopo l'Unità, nonostante l'azione repressiva dell'Austria e le scelte anticlericali del governo italiano. E alla religione, alla patria e all'arte dedicò tutto se stesso fino alla morte che lo colse l'8 febbraio 1889.
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